CAPITOLO III - I LIMITI ALLA CRESCITA ECONOMICA ALLA LUCE DI ALCUNE ANALISI EMPIRICHE

4. La produzione alimentare
Possiamo considerare come un dato storico il fatto che la crescita della popolazione umana sia sempre stata limitata dalla disponibilita' di cibo.
Questo argomento e' stato ben approfondito da Laura Conti, nota ambientalista italiana, che in un suo brano (58) analizza la lunga storia della demografia e della fame in un interessante intreccio di considerazioni ecologiche, economiche e storiche.
Poiche' la sua spiegazione dei fatti sembra di notevole interesse si ritiene utile seguirne lo schema interpretativo, integrandolo con altre considerazioni e dati.
Come tutte le specie animali, anche l'uomo ha una capacita' di riprodursi molto maggiore delle capacita' dell'ambiente di dare alimento ai suoi nati e tende ad occupare tutti gli spazi ai quali e' geneticamente capace di adattarsi.
Gli animali trovano un "equilibrio" con l'ambiente, per il fatto che, se una popolazione si espande in eccesso rispetto alle risorse disponibili, molti membri di essa sono destinati a morire.
L'uomo poiche' sa modificare l'ambiente a proprio vantaggio, ha percorso tre fasi storiche nella sua crescita demografica; nuovi adattamenti all'ambiente hanno permesso una rapida crescita della popolazione fino a raggiungere un nuovo equilibrio.
La prima fase e' quella dei tempi in cui il progresso tecnologico concerneva le tecnologie di caccia, pesca e raccolta; la seconda ebbe inizio circa 10.000 anni fa, con le tecnologie agricole e di allevamento; la terza piu' recentemente con la rivoluzione industriale.
Analizzando la storia umana, e in particolar modo quella dell'agricoltura, si puo' notare come l'introduzione di nuove tecnologie o accorgimenti abbiano fatto aumentare la produzione e quindi la popolazione sia cresciuta, stabilizzandosi ad un livello superiore. Anche l'emigrazione verso territori sempre piu` lontani o l'importazione di generi alimentari da terre meno densamente abitate e' caratteristico di questa particolare capacita` dell'uomo di adattarsi all'ambiente ed aumentare le proprie possibilita` di sopravvivenza. Quando pero' la spinta propulsiva di questi nuovi fattori viene ad esaurirsi, la crescita demografica tende in genere a scontrarsi con il limite delle risorse disponibili e quindi a fermarsi per trovare un nuovo equilibrio. Questo equilibrio a un livello superiore, come nel mondo animale, e' garantito dalla fame e dalla carestia che porta alla morte della popolazione in eccesso.
Tali considerazioni riportano l'attenzione sulle idee di Thomas R. Malthus, che per primo si accorse del fatto che la spinta riproduttiva tende a superare i limiti delle risorse alimentari (59). Laura Conti sottolinea come nelle sue previsioni c'era qualcosa di esatto e qualcosa di errato.
Mentre sembra che Malthus avesse ragione nel teorizzare una produttivita' decrescente della terra, egli non poteva certamente prevedere che, in una situazione di industrializzazione spinta, la natalita' sarebbe diminuita. E' abbastanza evidente come le drastiche ricette di questo economista classico non siano applicabili al mondo d'oggi, se e' vero il fatto che attualmente la fame, nella maggior parte dei casi, non dipende certamente da uno squilibrio tra la pressione demografica e la possibilita' di produrre cibo. La rivoluzione industriale infatti ha reso possibile un'agricoltura che, per i suoi risultati, sembra fino ad oggi aver decisamente smentito le tesi piu' pessimistiche del Malthus: "Si e' verificato cosi' quello che ancora un secolo fa sarebbe sembrato un risultato impossibile: non solo un incremento demografico, che ha portato la popolazione del pianeta a quattro miliardi di abitanti, ma un incremento assai maggiore della produzione di alimenti, tale che gli alimenti prodotti annualmente potrebbero soddisfare ampliamente il fabbisogno di tutta l'umanita'. Si producono infatti annualmente 324 kg di cereali pro capite (con un grande aumento rispetto al passato: se ne produssero 250 nel non lontano 1950) e si tratta di una quantita' che consentirebbe un'ottima alimentazione a tutti. Con 140 kg di cereali all'anno ciascuno potrebbe avere 400 grammi di cereali al giorno. Gli altri 184 kg, impiegati come mangime, permetterebbero a ciascun abitante della Terra di avere a disposizione 73 kg di carne all'anno (dato che sono stati selezionati ceppi bovini ad altissimo rendimento) da sommare a una disponibilita' di 15 kg annui pro capite di pesce. Il totale, di 88 kg annui, corrisponde a piu' di 200 grammi al giorno di cibo di origine animale. Una razione quotidiana di 400 grammi di grano e 200 grammi di carne o pesce costituisce senza dubbio un'alimentazione ottima." (60)
Viene allora spontaneo chiedersi come mai c'e' cosi' tanta gente che muore di fame. Secondo stime della Banca Mondiale per il 1980, 340 milioni di persone nei paesi in via di sviluppo, Cina esclusa, non dispongono di introiti sufficienti per procurarsi un minimo di calorie tale da prevenire gravi rischi di malattia e un arresto dello sviluppo dei figli, mentre 730 milioni di persone sono al di sotto di uno standard che permetta una vita di lavoro attiva.(61)
Al fenomeno della fame si puo' dare una spiegazione sommaria nella situazione politico-economica di tanti paesi del terzo mondo e nella strategia alimentare di quelli industrializzati.
Come osservano Lappe' e Collins il sovrappopolamento non e' la causa della fame, poiche' di tutta la terra coltivabile del nostro pianeta solo meno della meta' viene utilizzata (62).
Essi sostengono che questa sottoutilizzazione delle risorse produttive e' tipica di molti paesi in via di sviluppo, dove la terra, il credito ed il mercato sono controllati da poche persone, mentre quelli che lavorano la terra non hanno nessun efficace controllo su di essa: "Le vere barriere che impediscono una maggiore produzione non sono di ordine fisico, ma di ordine politico ed economico"(63).
Alcuni studi condotti in America latina dimostrano, per esempio, come i grandi proprietari terrieri coltivano solo un 14-15 % dei loro terreni (64). Le elites locali inoltre, nonostante la denutrizione di gran parte della popolazione, indirizzano la produzione verso generi destinati all'esportazione.
In altri paesi si pratica un'agricoltura "a scarsita' di risorse", che si basa su incerte precipitazioni anziche` su irrigazioni ed e' di solito praticata in regioni difficilmente coltivabili, come terre aride, altopiani e zone forestali, caratterizzate da suoli molto fragili. Questo accade, ci ricorda il Rapporto della Commissione Mondiale per l'ambiente e lo sviluppo (65), in gran parte dell'Africa subsahariana e per regioni remote dell'Asia e dell'America Latina, dove la produzione pro-capite si e` rivelata in declino e la fame costituisce un problema di importanza vitale.
E' abbastanza evidente come i piccoli agricoltori del terzo mondo non dispongano dei capitali per il miglioramento delle loro aree coltivate e per il potenziamento delle risorse idriche e che quindi questo dovrebbe essere compito delle amministrazioni pubbliche.
Nello stesso Rapporto si evidenzia come le zone ecologicamente svantaggiate e le masse rurali che dispongono di poca terra non hanno beneficiato affatto del progresso tecnologico, ne' potranno avvantaggiarsene finche' i governi non avranno la volonta' e la possibilita' di ridistribuire terre e risorse, oltre che di assicurare i necessari sussidi e incentivi agli agricoltori.
La strategia alimentare dei paesi industrializzati completa questo scenario: gli alimenti che oggi essi producono e potrebbero sfamare gli affamati vengono usati per l'allevamento del bestiame.
"(...) in tempi molto lontani l'umanita' "scese un gradino" lungo la piramide alimentare, da cacciatrice si fece raccoglitrice. Cambio' le abitudini prevalentemente carnivore, con l'integrazione di frutta, nell'abitudine di scavare tuberi e raccogliere grani, moltiplicando cosi' per dieci volte la disponibilita' di cibo. Ebbene, oggi c'e' una parte dell'umanita' che ha invertito la strategia, che lungo la piramide alimentare "sale un gradino"; e anche due o tre. Infatti i 324 kg annui pro capite di cereali non vengono distribuiti tra tutti i popoli. I cittadini degli Stati Uniti e del Canada, i piu' forti consumatori, prelevano ciascuno piu' di 800 kg di cereali all'anno dal granaio del mondo, ma ne mangiano direttamente una minima parte, meno di un quarto: il rimanente serve da mangime. Anche la soia, che nei paesi asiatici viene adoperata come cibo altamente proteico per l'uomo, negli Stati Uniti e in Europa viene impiegata come mangime. Le popolazioni che alimentano il bestiame con prodotti vegetali "salgono di un gradino" e quindi riducono di piu' della meta' il potenziale alimentare dei raccolti (...)"(66).
Cosi' l'eccessivo consumo di carne nelle nostre societa' industrializzate puo' essere visto, oltre che la causa di tanti danni alla salute, come uno dei motivi che contribuiscono a mantenere la fame nel mondo.
Dopo aver fatto queste osservazioni, si potrebbe concludere, nonostante tutto, con una nota di ottimismo: trovando soluzioni politiche alle ingiustizie distributive presenti in alcune parti del nostro pianeta, aiutando gli agricoltori piu' poveri a potenziare la loro produzione e modificando la dieta alimentare dei popoli occidentali, sembrerebbe esserci lo spazio per un ulteriore incremento demografico. Il problema principale e' che bisognerebbe riuscire a far questo senza pregiudicare la produttivita' dei mari e dei suoli e, possibilmente, senza distruggere quel che e' rimasto di foreste ed animali selvatici, mantenendo il piu' possibile inalterato l'ecosistema terrestre.
Molti ecologi notano invece come siamo in presenza di un fenomeno di "produttivita' decrescente" dei suoli e dei mari e che, nello sforzo di aumentare sempre piu' la produzione di alimenti, si corre il rischio di pregiudicare la base dalla quale si traggono le risorse alimentari stesse.
Per capire il perche' di questa produttivita' decrescente in agricoltura bisogna introdurre il concetto di "energia sussidiaria" che e' stata definita come "l'energia investita nell'agricoltura oltre a quella che il campo coltivato fornisce, come energia alimentare, agli uomini e agli animali che lo coltivano" (67). In passato molti progressi vennero realizzati proprio per l'accortezza di utilizzare in funzione di "energia sussidiaria" l'energia solare fissata in bacini esterni all'area coltivata, per esempio utilizzando come concime le deiezioni di animali lasciati pascolare in terre marginali oppure utilizzando questi stessi animali per lavorare nei campi.
Con la rivoluzione industriale questa "strategia energetica" e' continuata in maniera diversa. Mentre con il procedimento tradizionale, facendo pascolare su terre incolte gli animali da lavoro, si concentrava sui campi energia solare caduta recentemente altrove, oggi ci si vale invece dell'energia solare che in ere geologiche antiche venne fissata nel carbone e negli idrocarburi. Questo e' particolarmente evidente nel lavoro del trattore, ma bisogna ricordare che rientra in questa strategia soprattutto l'utilizzo di fertilizzanti azotati, la cui produzione richiede molta energia.
Certamente l'agricoltura industriale ha aumentato di molto le rese e quindi, insieme ad altre tecnologie, come quelle relative alla conservazione e alla trasformazione dei cibi, ha consentito un notevole incremento della disponibilita' di alimenti che, come si e' detto, e' tale che potrebbe oggi fornire un'adeguata alimentazione a tutta l'umanita'.
Alcuni autori sottolineano come pero' si stia assistendo ad una diminuzione della produttivita' dell'energia sussidiaria, che modifica profondamente il significato assunto sin qui dalla strategia energetica che l'umanita' ha adottato a partire dalla rivoluzione industriale.
Per quello che riguarda i nitrati artificiali, quando si inizio' ad usarli, scrive la Conti, "si poteva contare, sui terreni irrigui, di ricavare con un kg di nitrato 27 kg di mais. Ma questo beneficio va rapidamente decrescendo dopo che si e' raggiunto un rapporto ottimale fra la quantita' di nitrato impiegata e la superficie del terreno. Questo rapporto e' di 45 kg per ettaro nel Midwest americano coltivato a mais, e cambia secondo la localita' e secondo la specie coltivata. Quello che rimane costante e' il fatto che esiste un rapporto ottimale, al di la' del quale la produttivita' del nitrato diminuisce (cioe' diminuisce la produttivita' dell'energia impiegata per sintetizzare il nitrato). Per il mais, nel Midwest americano, la curva di diminuzione del rendimento e' tale che, dopo avere adoperato 180 kg di nitrato per ettaro, ogni kg di nitrato in piu' fornisce un solo kg di mais in piu'. Anzi il fenomeno e' ancora piu' preoccupante in quanto la produttivita' del nitrato diminuisce anche se la concimazione rimane costante. In altri termini, una volta che il terreno sia stato trattato con nitrati occorre ogni anno rinnovare il trattamento con una quantita' di nitrati maggiore, non per aumentare la resa per ettaro ma per conservarla immutata" (68).
La tabella 3 mostra a proposito alcuni dati molto significativi.

Tabella 3 - Produzione mondiale di cereali e uso fertilizzanti (in milioni di tonnellate)

Anni Produz.
mondiale
cereali
Aumento
cereali
Impiego
mondiale
fertilizz.
Aumento
fertilizz.
Rapporto di
produttivita'
(b)/(d)

 

(a)

(b)

(c)

(d)

(e)

1934-38 651   10    
1948-52 710 59 14 4 14,7
1959-61 840 130 27 13 10,0
1964-66  955 115 41 14 8,2
1969-71  1120 165 64 23 7,1
1974-76  1236 116 84 20 5,8

Fonte: FAO, USDA (United States Department of Agricolture).

I meccanismi biologici all'origine di questa perdita di produttivita' sono fondamentalmente due. Il primo consiste nel fatto che i nitrati esercitano un'azione nociva specifica sui batteri che operano la fissazione dell'azoto, quindi viene meno, con la nitratazione artificiale, una quota della nitratazione naturale: cosi' la concimazione chimica, che dapprima era aggiuntiva rispetto a quella naturale, finisce poi col diventare sostitutiva. In secondo luogo questi fertilizzanti provocano la morte di molti microorganismi del suolo, cosi' che il terreno si mineralizza e le acque trascinano via i nitrati, non piu' trattenuti dalla materia organica.(69)
L'operare di questi meccanismi biologici comporta quindi un uso sempre piu' massiccio di tali concimi azotati, tanto che si potrebbe paragonare il suolo ad un "tossicoipendente" che, per mantenersi in vita, deve aumentare di continuo le dosi.
Se e fino a che punto tale sistema possa reggere non e' molto chiaro, mentre e' certo che le agricolture industrializzate dipenderanno sempre piu' dalla possibilita' di utilizzare grandi quantita' di energia nei terreni.
L'uso di grandi quantita' di concimi chimici sta mettendo a dura prova l'ecosistema dei fiumi, dei laghi e dei mari, poiche' essi si dilavano nel terreno riversandosi nei corsi d'acqua e creando il fenomeno dell' "eutrofizzazione" (del quale si parlera' nel seguente paragrafo).
Altro esempio di diminuzione della produttivita` dell'energia applicata all'agricoltura si ha nell'uso sempre maggiore di insetticidi. Anche in questo caso uno specifico meccanismo biologico e' la causa di tale fenomeno.
Il rapido ed elevato tasso di natalita' degli insetti provoca, come ben noto, una velocissima selezione naturale. Ben presto l'agricoltore deve affrontare una nuova generazione di "mutanti" resistenti al prodotto usato. Dapprima non se ne accorge e spreca inutilmente grandi quantita' di insetticida, fino a quando l'industria non immette sul mercato nuovi prodotti, e cosi' via.
Nel Rapporto della Commissione Mondiale per l'ambiente e lo sviluppo si e' scritto: "Zone di pesca sono state depauperate, specie di uccelli messe in pericolo e insetti che predavano parassiti spazzati via. Il numero di specie di parassiti resistenti ai pesticidi e' aumentato in tutto il mondo e molte di esse si rilevano oggi insensibili persino alle sostanze chimiche piu' recenti. La varieta' e la gravita' delle infestazioni parassitarie si moltiplicano, minacciando la produttivita' agricola nelle zone interessate."(70)
Alcune ricerche hanno messo in evidenza che negli USA le perdite produttive causate da insetti sono salite dal 7% del 1940 al 13% nel 1979, quelle dovute a malattie crittogamiche dal 10% al 12%, mentre il consumo di pesticidi e' aumentato di dieci volte nello stesso periodo.(71)
Al di la' dei gravi danni apportati all'organismo umano dal crescente uso di fertilizzanti azotati e dai pesticidi, questo tipo di agricoltura innesta un meccanismo che porta verso un tipo di ecosistema definito dalla Conti sempre piu` "immaturo".
In linea generale l'uso di questi prodotti chimici comporta la sparizione di tutto un insieme di organismi viventi, alterando gli equilibri di sistemi ecologici "maturi", cioe` basati sulla complessita', composti da reti molto fitte in cui una causa ha molti effetti, e molte cause concorrono ad un medesimo effetto.
In condizioni di immaturita' un sistema e' invece lineare, con univocita' di relazioni causa-effetto: in tal caso non e' stabile e va incontro a catastrofi.
Dall'azienda agricola tradizionale, dove c'era una certa varieta' di produzione, piccoli animali selvatici e siepi che creavano un ecosistema stabile, si e' passati ad un'azienda che, abbattendo alberi e cespugli per far spazio a trattori sempre piu' grandi, avvelenando la piccola fauna, puntando sulla monocoltura intensiva, ha gradualmente eliminato la complessita' del sistema vivente, riconducendo il tutto a pochi elementi. Una malattia a questo punto puo' espandersi a vista d'occhio, perche' non c'e' piu' l'alternanza delle colture e degli ambienti a frenarla. E, poiche' altrimenti il disastro e' sempre dietro l'angolo, non resta che somministrare continuamente nuovi insetticidi, topicidi ed erbicidi.
Tutta questa serie di meccanismi portano quindi, a parita' di produzione di beni alimentari, ad una sempre maggiore dipendenza dell'agricoltura industrializzata da concimi e da altri prodotti chimici, con un bisogno crescente di energia da impiegare nella loro produzione. Stiamo assistendo ad una continua diminuzione della produttivita' dell' "energia sussidiaria". In questo senso si puo' affermare che il problema della produzione di alimenti si ricollega a quello energetico e la necessita' di produrre sempre piu' alimenti non puo', in questo contesto, che portare ad una sempre maggiore richiesta di energia.(72)
Supponendo che nuove fonti illimitate di energia permettano in futuro di continuare su questa strada, resta comunque l'incognita se il suolo e l'ecosistema possano sopportare all'infinito questo depauperamento delle sue caratteristiche biologiche.
A quelli fin ora descritti si devono aggiungere altri fenomeni preoccupanti quali l'erosione dei suoli e la desertificazione, l'inquinamento e l'acidificazione dei suoli causato da altre attivita' produttive.
L'estensione delle terre coltivate negli ultimi decenni ha molto spesso comportato la messa a coltura di zone marginali esposte ad erosione. Nel Rapporto "Brundtland" (73) si rileva come questo fenomeno assuma ormai dimensioni preoccupanti in tutto il mondo: "Con l'erosione il suolo diventa piu' permeabile, viene privato di sostanze nutritive e lo strato di terreno nel quale le radici possono far presa diminuisce. La produttivita' dei terreni si riduce. Il terriccio eroso viene trasportato verso fiumi, laghi e bacini idrici, intasa porti e vie d'acqua, riduce il volume delle riserve idriche dei bacini artificiali e aumenta l'incidenza e la gravita' delle inondazioni".
Le foreste rivestono un'importanza fondamentale ai fini del mantenimento e dell'aumento della produttivita' dei suoli. In generale esse servono ad arginare il terreno; la perdita del patrimonio arboreo, specialmente sui versanti ripidi delle colline, provoca i fenomeni descritti di erosione, causati non solo dall'acqua ma anche dal vento.
La distruzione delle foreste, che incorporano da 19 a 20 volte piu' carbonio per superficie unitaria rispetto alle terre a coltura o a pascolo, immette poi nell'atmosfera notevoli quantita' di anidride carbonica che, sommata a quella proveniente dall'uso dei combustibili fossili, da luogo al cosidetto "effetto serra", del quale si illustreranno gli effetti nel prossimo paragrafo.
Si puo' anche rilevare come il taglio delle foreste, specialmente in zone tropicali, contribuisca per ben poco tempo alla risoluzione del problema alimentare. "E' evidente che la gravita' e l'estensione del problema della fame nel mondo trova nei delicati equilibri climatici e pedologici delle zone calde una aggravante non secondaria: l'introduzione di colture o di tecniche inadatte all'ambiente, che spesso hanno accompagnato la colonizzazione di tali paesi, porta rapidamente all'inaridimento e persino alla irreversibile desertificazione di certi terreni (....). La foresta equatoriale rappresenta, in un certo senso, una situazione ideale: e' un'esplosione di vita con una esuberante varieta' di specie animali e vegetali. (...) Tuttavia, quando non ci si voglia limitare ad un'economia di raccolta o di caccia e si vogliano introdurre coltivazioni, nascono grosse difficolta' nelle zone equatoriali. Gia' la stessa esuberanza di specie fa si' che non manchino quelle dannose per l'uomo o per le coltivazioni: insetti, funghi, animali, ecc. Oltre alla rapida mineralizzazione della materia organica, accentuata dalla lavorazione della terra, la degradazione della fertilita' nei paesi caldi si spiega anche con un'azione battericida del forte soleggiamento che si opera sul terreno allorche' rimanga nudo, nonche' con un'azione che pregiudica la conservazione dell'azoto nel substrato. Anziche' rimanere vivo e fertile, una volta privato di una copertura naturale, il terreno delle zone fortemente soleggiate tende inevitabilmente a sterilizzarsi e a desertificare. In generale nei paesi caldi i rischi maggiori per il terreno sono la desertificazione e la salificazione nei regimi secchi o stagionali, l'impaludamento e la laterizzazione in quelli piovosi."(74)
L'espansione delle coltivazioni, il crescente commercio mondiale di legname e la domanda di legna da ardere (75), specialmente nei paesi in via di sviluppo, stanno mettendo in serio pericolo il patrimonio boschivo e in particolar modo le foreste tropicali (76). Lester R. Brown e Christopher Flavin (77) sottolineano come la conseguenza ultima del disboscamento, dell'eccessivo sfruttamento dei pascoli, nonche' di arature troppo frequenti, e' spesso la desertificazione, un processo che ha inizio quando le particelle piu' fini di humus vengono asportate dall'acqua e dal vento, lasciandosi dietro, a lungo andare, le particelle piu' grosse di sabbia e ghiaia. Le osservazioni compiute in Africa durante lo scorso decennio hanno messo in luce che questo processo e' ormai in pieno sviluppo in tutti quei paesi per i quali vi sono dati disponibili. Il rapporto "Brundtland" afferma che circa un 29% delle terre mondiali e' sottoposto a lieve, moderata o grave desertificazione, mentre un altro 6% e' classificato come desertificato in modo estremamente grave. Nel 1984 le terre aride davano da vivere a circa 850 milioni di individui, 230 milioni dei quali su terre colpite da grave desertificazione.
Possiamo quindi concludere che stiamo assistendo a un meccanismo di tipo "malthusiano", per il quale la crescita della popolazione comporta la coltivazione di terreni marginali, non solo con rendimenti decrescenti, ma con il deterioramento o l'esaurimento dello stesso fattore suolo?
Probabilmente oggi no. Come sottolineano Lappe' e Collins (78), portando ad esempio molti paesi del centro e del sud America, quei contadini che cercano di coltivare i fragili pendii delle montagne o che contribuiscono al disboscamento di intere foreste, si possono considerare come esiliati ed espulsi dalle loro legittime proprieta' da poche famiglie che si concedono uno stile di vita lussuoso esportando caffe' o bestiame nei paesi piu' ricchi.
Sembra, come gia' osservato, che l'aumento della popolazione non abbia quindi ancora raggiunto i limiti della sostenibilita' alimentare del pianeta. D'altra parte, bisogna rilevare come questi fenomeni di messa a coltura di terre marginali e di degradazione del suolo, oggi gia' in corso per diversi motivi, anticipano quello che potrebbe essere lo scontro con questi limiti produttivi del nostro pianeta.
Oltre all'agricoltura e all'allevamento degli animali, un altra fonte di risorse alimentari e' la pesca. Purtroppo oggi stiamo assistendo ad un fenomeno di rendimento decrescente anche nei mari.(79)
Con le tecnologie moderne l'efficienza delle flotte di pescherecci e' considerevolmente aumentata, e ha permesso un incremento notevole ma incontrollato del pescato, tale da superare la velocita' dei cicli naturali di riproduzione. Al saccheggio dei mari come fonte di cibo si e' poi aggiunto il fatto che essi sono ormai il ricettacolo di molti agenti inquinanti.
Vari autori sottolineano come dal 1971/1972, benche' gli investimenti dell'industria della pesca continuino ogni anno ad accrescersi, il volume totale del pescato rimane stazionario, con qualche episodio di diminuzione (80). Siamo quindi di fronte, anche in questo caso, ad una diminuzione di produttivita' degli investimenti.
In questo paragrafo si e' visto come il problema della produzione di alimenti sia legato, in sostanza, alla necessita' di una corretta gestione delle risorse rinnovabili. Inquinamenti, sfruttamenti troppo intensivi o non appropriati possono mettere in serio pericolo la base da cui l'umanita' trae la propria vita, riducendo anche notevolmente la disponibilita' di alimenti.
Certamente in futuro nuove tecnologie e investimenti renderanno possibile una maggiore produzione agricola, ma sara' sempre piu' necessario tener conto della preservazione di equilibri e cicli ecologici. Nel paragrafo 6. si vedranno alcune possibili soluzioni in questa direzione.

Note

Riferimenti bibliografici


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